Niente rimborsi all’ex che ha pagato la ristrutturazione

Quando la casa su cui sono stati fatti i lavori è dell’altro partner, il convivente ha soltanto una detenzione qualificata dei locali e non è titolare del possesso che fa scattare l’indennità. E il principio vale anche se la coppia è sposata. Secondo la Cassazione, chi non è proprietario dell’immobile ha solo un diritto di godimento.

 

Quando la storia d’amore è finita, il partner che ha pagato la ristrutturazione per la casa di proprietà dell’altro può scordarsi il rimborso delle spese sostenute. E ciò perché il convivente ha soltanto una detenzione qualificata dei locali e non è titolare del possesso che fa scattare l’indennità ex articolo 1150 c.c. per le migliorie apportate all’immobile. Di più: il principio vale anche se la coppia è sposata. Il solo fatto che il cespite sia adibito a casa familiare non integra di per sé il possesso perché il coniuge utilizzatore vanta sul bene un mero diritto personale di godimento. È quanto emerge dall’ordinanza 23882/21, pubblicata il 3 settembre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Progetto di vita. Accolto il ricorso dell’ex moglie contro la sentenza d’appello che la condannava a pagare all’uomo oltre 41 mila euro per le migliorie all’appartamento e ancora più di 19 mila per le opere eseguite, secondo quanto richiesto con il gravame incidentale. Già in appello la proprietaria della casa deduce che l’ex non possa vantare il possesso sul bene. E ora la censura trova ingresso. La condanna è limitata alle spese sostenute dall’uomo prima del matrimonio perché si ritiene che gli esborsi successivi costituiscano un adempimento spontaneo dell’obbligo di contribuzione previsto per le coppie sposate. Ma attenzione, al coniuge che non è non titolare di una quota dell’immobile adibito a casa familiare non si può riconoscere la qualità di possessore senza verificare in concreto l’atteggiamento tenuto nei confronti del bene. Pesa sul punto la giurisprudenza di legittimità elaborata per la convivenza more uxorio, una formazione sociale che pure dà vita a una famiglia vera e propria. Il partner che vive nella casa dell’altro, dove si attua il progetto di vita comune, ha sull’immobile un potere di fatto fondato su un interesse proprio e non può certo essere considerato un ospite: la detenzione qualificata del bene ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Il principio vale anche per i coniugi: uno, il mero utilizzatore, ha sui locali un diritto personale di godimento acquisito a titolo derivativo dall’unione familiare; l’altro è esclusivo titolare di un diritto reale (proprietà, usufrutto, uso e abitazione) oppure di un diritto personale di godimento in quanto conduttore o comodatario dell’immobile. E il diritto del primo scaturisce da quello del secondo.

 Le spese di ristrutturazione, nel caso specifico, riguardano il recupero dell’appartamento che versava in condizioni precarie: risalgono dunque a prima che la casa fosse abitata, il che consente di escludere la qualità di possessore in capo all’uomo. L’evoluzione della giurisprudenza sulle coppie non sposate, insomma, ha effetti nei rapporti fra quelle unite in matrimonio. E l’ordinanza 23882/21 affonda le radici nella 22730/19, pubblicata dalla terza sezione civile. Che reputa errata la qualificazione compiuta dal giudice del merito ai sensi dell’articolo 1150 Cc dopo che la domanda iniziale era stata proposta per ottenere il pagamento di una somma per miglioramenti apportati all’immobile ex articoli 192, 936 e 2033 c.c.: ciò perché il diritto di cui all’articolo 1150 Cc richiede che il creditore alleghi e provi il possesso del bene, mentre non si può ritenere che il coniuge, poi separato, abbia composseduto i locali ristrutturati di proprietà dell’altro soltanto perché l’immobile è utilizzato come casa familiare. Sbaglia la Corte d’appello a rifarsi a precedenti della Cassazione che riguardano le pretese di rimborso avanzate per migliorie o ampliamenti dell’immobile realizzati dall’ex coniuge in costanza di matrimonio. La parola, dunque, passa al giudice del rinvio.

More uxorio. Chi convive col suo compagno, anche se la casa appartiene soltanto al partner, non è mai un ospite. Il suo rapporto con l’abitazione dove si svolge la relazione familiare di fatto non può essere irrilevante dal punto di vista giuridico, come nel caso dell’ospitalità. Così, se l’amore finisce, il canone della buona fede impone al convivente, proprietario di casa che vuole recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile deve avvisare l’ormai ex partner e concedergli un termine congruo per trovarsi una nuova sistemazione. Lo impone il principio della correttezza (lo ha spiegato la Cassazione con la sentenza 7214/13, pubblicata prima che fosse approvata la legge Cirinnà sulle coppie di fatto). Di più: chi è stato spogliato in modo violento del possesso ha diritto a agire in reintegrazione ex articolo 1168 c.c. per essere riammesso all’abitazione dove aveva luogo la convivenza more uxorio. Il fatto che non esista un giudice della dissoluzione del ménage non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione. La giurisprudenza di legittimità compie un passo per la tutela della convivenza more uxorio, anche se ciò non significa arrivare a un completo pareggiamento con il matrimonio: nella prima si è scelto di non vincolarsi, forse proprio per evitare tutte le conseguenze legali, e assume maggiore rilievo la soggettività individuale della persona del convivente; nel secondo acquistano rilevanza maggiore le esigenze obiettive della famiglia come «stabile istituzione sovraindividuale». Ma anche la semplice convivenza assume i caratteri di comunità familiare e, dunque, il rapporto del convivente non proprietario con la casa che appartiene al partner risulta fondata sul negozio a contenuto personale che sta alla base della scelta di vivere insieme e di costituire una famiglia, che come tale è anche socialmente riconoscibile. Il legislatore e la giurisprudenza di legittimità, d’altronde, riconoscono ormai la qualità di formazione sociale alla relazione more uxorio: il convivente, ad esempio, può astenersi dal deporre quando il partner è imputato oppure ottenere il danno non patrimoniale per la morte del compagno provocata da un terzo. Via libera, dunque, anche alle azioni possessorie.

Affidamento e tutela. Ancora. Il semplice convivente del de cuius non può restare nella casa di proprietà del suo partner. Ma gli eredi devono almeno concedergli un termine congruo per trovarsi una nuova sistemazione. E il merito è comunque della legge sulle unioni civili, che pure non si applica ai rapporti more uxorio ante riforma laddove conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo: la scelta del legislatore che riconosciuto le coppie di fatto, osserva la sentenza 10377/17, impone per il principio di buona fede che l’ex partner del de cuius non possa essere sloggiato dalla sera alla mattina dalla casa in cui ha vissuto per anni.

Niente da fare per la signora: deve lasciare alla figlia e all’ex moglie del de cuius l’appartamento dove ha abitato per una vita con il suo uomo. La transazione firmata nell’ambito del giudizio di reintegrazione del possesso, promosso dalle proprietarie dell’immobile, riconosce soltanto il compossesso di queste ultime e obbliga la donna a pagare le spese di mantenimento. Il punto è che il convivente ha soltanto una detenzione qualificata sulla casa di proprietà del partner: è vero, ha diritto all’azione di spoglio se viene estromesso in modo violento o clandestino, anche da parte del titolare del diritto dominicale. Ma la situazione giuridica dura finché sussiste il rapporto more uxorio che ne costituisce il titolo: quindi se la coppia di fatto si lascia il convivente non proprietario deve abbandonare l’immobile. Idem vale quando il proprietario muore, se il superstite non è istituito coerede né legatario dal de cuius.

Oggi la legge sulle unioni civili riconosce un diritto di abitazione al partner che sopravvive al proprietario modulato in proporzione alla durata della convivenza e alla presenza di figli minori o disabili. La riforma che non può essere retroattiva riverbera però sul passato sul piano del principio della correttezza, dettato «a tutela dei soggetti più esposti e delle situazione di affidamento»: ecco perché morto il de cuius non si può sbattere fuori il suo partner.

 

FONTE: ITALIA OGGI